Unica anche la tua –
chiede – anche la tua –
sofferenza unicamente
perché.
E non si accontenta
di risposte. Deve assestarsi
come osso,
callo calcareo che asseconda
la lenta ripresa del movimento
nella frattura, un dolore che passa
dentro un dolore diverso, diversa postura,
menomazione più lieve e duratura.
Gian Mario Villalta (Visinale, 1959), Vanità della mente (Mondadori, 2011)
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In pensiero di casa
novembre 14, 2019settembre 20, 2019
Sono libri difficili, pagine oscure, ma non vuoi che ti basti
vivere con il pasto che aspetta coperto da un piatto
dopo la scuola, un futuro migliore di speranze non tue.
Viene luce più tardi. Il cielo rimena
macerie. L’erba è bianca. Tu non capisci tutto
ma sei sicuro che capiscono te
le parole che qualcuno ha scritto e ti immagini
la sua vita, con quei pensieri, la pianura
dove la città di ferro si eleva intorno al borgo,
luce che piove amara, uno lo ferma per strada
vicino all’erba, ai cassoni, parlano di queste cose.
Gian Mario Villalta (Visinale di Pasiano, 1959), inedito
settembre 17, 2019
1
Già le auto, che dopo lo stop accelerano in ripresa:
lacerano la stoffa tesa tra gli aceri della notte.
Già il tramestare il tintinnio lo sbattere
di là dalla parete: il vicino e la lavapiatti – coppia perfetta-
il battibecco di ogni mattina alle sette.
Mentre inonda la tenda la luce che la porta finestra
ricuce sghemba – pare umida – sul pavimento.
E con la luce l’attesa.
Richiuse appena le palpebre.
Ancora un minuto un minuto.
Che cosa aspetti da sempre?
2
Ti stai attardando e lo sai nelle stanze del sonno
dove il gufo e la donnola parlottano quieti
nello specchio che versa il liquore degli anni
sul pavimento: hai avuto paura, ma ora il tuo corpo
galleggia nel tempo, c’è il platano nel cortile
della scuola, il trattore, prendi il tuo posto
nella foto con la maglia a righe.
Ancora un minuto un minuto.
Ti riconosce una fuga di echi.
La proroga tra l’essere
chiunque e il diventare te stesso
dura l’incalcolabile.
3
Sono stato un bambino insonne.
All’inizio era tutto catturare l’istante
dello sprofondo, quando l’io vigile
si dissolve e subentra quell’altro che sogna
e sa che dorme.
Non è stato facile
rinunciare a un gioco dove pareva possibile
soffermarsi sulla soglia del perdere sé
e sorprendere – nella notte,
nel buio della mente, afferrando – l’istante,
la chioma sua di cometa prima del niente.
Tra me e me lo chiamavo il scappamorte.
È stato l’altro, poi, a sorprendere me:
da un sogno dove l’avevo lasciato all’alba
senza più ricordarmi,
mi ha svegliato mentre mi stavo perdendo
dentro le cose solite
che perdono tutti ogni giorno.
I
un grappolo di buio, il frutto del restare, quando si interra il sonno
nei giorni, tra i gradini e il lenzuolo, la carta e il suolo nulla più
che proporzioni, algoritmi, della mente
e del niente utili ornamenti
II
passa sui dorsi delle mani, sui campi coltivati, sugli anni
lo sguardo all’opera, scivola fuori, allestisce la scena con legno e filo
di ferro, colore rosso, aghi e cenere, cenere, ancora
cenere fino a quando tutto è sommerso e quieto
Gian Mario Villalta
agosto 11, 2019
Il padre chiama tutta notte.
La madre scaglia l’apparecchio
(non ce la fa più
a sentirlo) sul letto.
Lo riaccosta all’orecchio (ché è ancora là),
per sentirsi ripetere
che lui non è mai venuto meno
– lo riconosca, quello
almeno – alle sue responsabilità.
L’albergo dove dorme non ha gli scuri:
ogni volta che squilla di nuovo il telefono
riapre gli occhi e nell’albume di luce si vede i piedi, le gambe magre.
Potrebbe spegnere, invece aspetta, risponde, si lascia invadere.
Per punizione.
La bimba piange, con il padre.
Il padre aspetta che la bambina si riaddormenti
e chiama ancora (è mattina
ormai) la prega: “Puttana… crepa… non andare”.
La bimba ride, con la madre, nel sogno.
Ride fino a farsi venire la febbre.
La madre, disperata, scrive mio
all’uomo che nel giorno dopo,
nella vita dopo, la attende.
Lui risponde subito sì.
La bimba chiede (è andata via
la febbre) se è sabato, al padre che oggi non va al lavoro.
Che cosa sarebbero
queste quattro persone sole
(la bimba sola, come si è soli
a tre anni, senza neppure se stessi)
che cosa farebbero senza l’amore?
Gian Mario Villalta (Visinale di Pasiano, 1959), da Vedere al buio (Lietocolle-Pordenonelegge,2016)
ottobre 31, 2015
L’estate non si fa annunciare,
se è estate vera, non ha false partenze
come la primavera, o l’autunno
che è quasi tutto annuncio.
L’estate viene in un solo giorno.
Un temporale, la polvere, l’asfalto.
È il fresco delle due di notte
quando pensi che l’estate sta passando.
Gian Mario Villalta (Visinale, 1959)